Propongo alcuni spunti della lezione tenuta dalla Prof.ssa Amina Crisma (nella foto) docente di filosofia dell’Asia orientale all’Università di Bologna. Come tutte le grandi religioni universali, anche il buddismo è un grande fenomeno interculturale: il primo “occidente” che la Cina incontra nella sua storia infatti è l’India, che ha una lingua indoeuropea e fa parte dell’impero di Alessandro. Straordinario ed impressionante l’esempio della statuaria: l’iconografia del Buddha mostra chiaramente la contaminazione avvenuta tra arte greca ed indiana.Ma come mai la Cina, che si concepisce come “la terra di mezzo”, ossia il centro del mondo, al di fuori della quale stanno i barbari, si apre ad una religione di origine indiana?

 

Il buddismo si diffonde nel momento della terribile crisi dell’impero classico cinese della dinastia Han: un momento in cui il tradizionale orizzonte terreno e politico del confucianesimo e del taoismo lascia spazio ad inquietudini individuali a cui la vecchia cultura non sa più rispondere. Vacilla il tradizionale ottimismo ed amore per l’armonia e l’ordine, declinati all’interno dell’amore per il mondo ed il ciclo della vita visto come essenzialmente buono.

Quali sono allora i motivi del “successo” enorme del buddismo in Cina, che dura più di 10 secoli?

Vincente si dimostra la visione dell’esistenza come dolore, ed insieme la proposta di una via di salvezza semplice ed aperta a tutti, in assenza di qualsiasi rivelazione e metafisica trascendente. La salvezza appare disponibile anche ai laici, e non con i tempi lunghi del buddismo indiano, ma, secondo la sensibilità cinese, ora. Subito.

Una dottrina di salvezza che “riorienta” il popolo disorientato dalla violenza della guerra e del disordine successivo al crollo dell’impero Han, proponendo insieme una “ortoprassi” terapeutica, che avvia alla saggezza, alla compassione, alla pratica morale, alla disciplina mentale della meditazione, di stampo razionale.

Tre sono i passaggi di questo “inserimento” del buddismo in Cina:

  • Dal III al IV secolo d.c. non si comprende ancora il buddismo, ma esso desta entusiasmo ed interesse.
  • Dal V al VI secolo si prende coscienza delle origini indiane del buddismo e si intraprendono pellegrinaggi alla ricerca dei sutra; migliaia di traduttori sono all’opera per riportarli fedelmente in cinese.
  • Dal VII all’VIII secolo, in epoca Tang, avviene la piena “sinizzazione” del buddismo, che non fa più riferimento all’India e produce lo splendido frutto del “Chan” (detto “Zen” in Giappone).

Taoismo e confucianesimo alla fine si fondono col buddismo: le tre vie convergono.

Qual è il prodotto di tale splendida contaminazione?

Secondo Li Zehou, intellettuale cinese tra i più autorevoli, la tradizione cinese, pragmatistica e storicistica, alla fine trionfa sul misticismo.

Ma si può anche dire l’opposto, e cioè che il buddismo introduce in Cina un orizzonte spirituale mai conosciuto fino ad allora.

Introduce ad esempio il monachesimo, che stride con il profondo rispetto per la continuità della famiglia insito nella mentalità confuciana, creando anche qualche problema politico riguardo alla subordinazione dei monaci all’imperatore.

(In Tibet infatti il potere monastico era diventato anche potere politico, con riflessi che possiamo definire ancora di stretta attualità…)

Inoltre il buddismo ha posto al centro della riflessione il tema del male e del dolore, che prima di allora erano concepiti in Cina solo all’interno del tema del “limite” umano.

Cercare di sottrarsi al ciclo cosmico non era pensabile per il taoismo, che tendeva invece a prolungare l’esistenza, coltivando l’istinto vitale.

Mentre il pensiero classico si muove in un orizzonte esclusivamente politico, si introduce ora in Cina il pathos per la caducità del singolo.

Ma, man mano che la civiltà cinese si riprende dalla crisi che la travolge dopo l’impero Han, riassorbe il buddismo entro una mentalità costruttiva e terrena: si elevano ad esempio templi buddisti alla pietà filiale, argomento anteriormente peculiare del confucianesimo.

Il neo-confucianesimo, permeato di buddismo, esalta i valori della compassione, della solidarietà coi sofferenti e i bisognosi, dell’unione mistica con tutti gli esseri.

Le tre dottrine quindi alla fine confluiscono, non avendo carattere “esclusivo” come i monoteismi occidentali: la profonda parentela tra ebraismo, cristianesimo ed islam è chiarissima vista dalla Cina.

Ognuno in Cina può praticare l’una o l’altra “religione” a seconda delle circostanze ed esigenze.

Tuttavia il canone, i templi, le liturgie, il clero delle tre “vie” rimangono diversi.

Mancando nella cultura cinese la dimensione teologica, manca di conseguenza anche l’esclusivismo tipico dei monoteismi.

Infine, vorrei citare un aspetto di rilievo didattico per noi insegnanti: nel nostro Battistero, in una lunetta antelamica, è riportata la leggenda di Barlaam e Iosafat, che costituisce la “cristianizzazione” della storia di Buddha: un altro straordinario esempio della pervasività della comunicazione interculturale nel nostro “buio” medio evo.