Dopo aver attentamente ascoltato i tre relatori che hanno esposto (a grandi linee) la storia del buddismo, vorrei fare una prima riflessione come insegnante di religione. Mi sembra si sia parlato del desiderio umano, e di come il buddismo abbia rivelato che non esiste cosa o persona, o condizione, che lo possa saturare, e che l’alimentare tale desiderio sia alla base della nostra condizione di sofferenza.I nostri alunni, da adolescenti, si stanno dibattendo proprio tra questi dilemmi e contraddizioni: sono attratti in avanti dal desiderio, ma nello stesso tempo non sanno in cosa riporre le proprie speranze, su quale terreno poggiare i piedi; cercano dapprima di acquisire un’identità in base a quello che gli altri ritengono importante: l’immagine, il successo, la fama.

 

Ma, così facendo, rischiano di svuotare il delicato meccanismo del desiderio e di rimanere a mani vuote, rinunciando infine cinicamente ad ogni speranza.

Come insegnanti, noi sappiamo bene che se il desiderio morisse in loro essi stessi si affloscerebbero come “sacchetti vuoti” e nel contempo intuiamo quali cure richieda la custodia del desiderio in un adolescente: quale delicatezza richieda nutrire la speranza insieme al senso del realismo perché si schiuda una strada percorribile di fronte ad un giovane.

Forse allora non si tratta tanto di negare il desiderio, quanto di imparare a scegliere tra modi diversi di viverlo e di cogliere a quale livello si situa il nostro vero desiderio.

Dobbiamo fornire un “filo di Arianna” perché vadano attraverso la contraddizione, per mezzo della contraddizione, su un altro terreno.

I monaci buddisti, meditando di fronte ad un muro, scoprono di avere già “tutto” in se stessi; Gesù, rimanendo in ogni istante al cospetto del Padre, sa che è possibile vivere il Regno.

E qui possiamo notare un’altra analogia, che non indebolisce ma rafforza i sentieri che convergono, ed è l’esperienza della psicanalisi.

Dice Massimo Recalcati nel suo “Ritratti del desiderio”: “Quando l’attaccamento all’io viene meno, quando l’Io si indebolisce, quando tramonta, quando si eclissa, quando si depersonalizza, lì, in questo crepuscolo della credenza nell’identità del sé, dell’essere se stessi, si dà la possibilità di fare esistere il desiderio che si manifesta al di là della follia narcisistica dell’Io. Si tratta di una grande occasione per il soggetto di sganciarsi dall’Io, dalle sue illusioni narcisistiche, dalla sofferenza generata dall’attaccamento a se stesso, per riconquistare ciò che è già suo, ciò che lo definisce nella sua particolarità più bizzarra e scabrosa.”

Si tratta di “assumere come responsabilità un evento che ci trascende e che è, al tempo stesso, nostro… una responsabilità senza proprietà”.

Si tratta di un desiderio che non tollera il modo del possesso, perché orienta alla relazione, alla continua “recezione” di se stesso dall’Altro.

Ecco, il desiderio di Altro, dell’Altro, è uno dei volti del desiderio, quello che ci mette nella relazione come modo di essere.

Relazione vuol dire mancanza, e la mancanza vuol dire desiderio.

Non siamo più sul terreno dell’io, ma siamo di fronte ad un Altro che ci chiama oltre noi stessi, con voce estranea e insieme profondamente intima. Dobbiamo lasciarci modellare perché si manifesti il nuovo in noi.

Ciò che non abbiamo mai immaginato, che l’uomo non può immaginare, che viene dal seguire un Altro presente in noi e oltre noi.